Conferenza pubblica di Régis Soavi. Parigi, sabato 15 marzo 2003.
Allora, tanto per cominciare, perché questo luogo, perché una pratica del non-fare? Pratica del non-fare: questo ci porta piuttosto verso l’Oriente, verso la Cina, il Giappone. Pratica del non-fare è Wu-Wei, non agire; insomma, questo ci conduce verso l’estremo Oriente. Perché in questo luogo una pratica del non-fare? Ebbene… ho scoperto gli atelier di Espressione durante uno stage a Milano. Ero stato invitato là, poiché il mio mestiere è fare delle conferenze, non sull’Espressione, ma piuttosto sul Movimento rigeneratore e l’Aikido. Dunque mi trovavo là e sono stato condotto in un piccolo appartamento, un due locali. Non sapevo niente di questo posto; sono entrato in una stanza e mi è stato detto:
«Ecco, se vuoi puoi dormire – l’appartamento era vuoto – in una delle stanze, questa o quella». Sono andato nell’altra e ho detto: «Oh là! È strano, che risonanza in questa stanza, è sorprendente. Cosa succede in questa stanza? È un dojo!…».
«No…Mia madre aveva un atelier di pittura».
«Tua madre doveva essere una persona particolare, perché…è stupefacente!». Non c’era più niente. Tutto era stato sgombrato, pulito. C’era tuttavia uno spirito… spirito del non-fare, spirito che conosco, dunque che riconosco. «Ma cos’è questo atelier di pittura per i bambini, lei che faceva?». (Pensavo a qualcosa come un’animatrice, come ce ne sono in tutte le buone case di cultura). Poi ha cominciato a parlarmi, a dirmi:
«Ecco, è un atelier di pittura… ma è un po’ speciale. Mia madre era pittrice e poi, pian piano, si è interessata al lavoro di un signore che si chiama Arno Stern».
«Arno Stern… sì… e cosa ha fatto?».
«Ha una ricerca speciale; ha scoperto qualcosa che si chiama Espressione».
L’Espressione, francamente, all’inizio non mi diceva granché.
E poi mi dice: «Sai, è come te, non scolarizza i suoi figli».
«Ah davvero? È talmente raro, persone che non scolarizzino i loro figli, estremamente raro, sì!
Insomma è curioso; hai qualcosa su di lui?».
«Sì, ho un articolo».
Allora mi ha dato un articolo che esponeva vagamente i principi della sua ricerca. Mi ha interessato. È veramente curiosa questa storia. Quindi, di ritorno a Tolosa, dove all’epoca abitavo, ho tentato di incontrare Arno Stern. Sono andato a bussare alla sua porta, a Parigi. È così che è cominciata una
conoscenza che è durata, diciamo così, una dozzina d’anni.
Dunque Arno Stern ha scoperto qualcosa. Non sono qui per fare una conferenza che spieghi in maniera approfondita cosa sia l’Espressione, poiché questo Arno Stern lo farebbe molto meglio di me. È il suo lavoro di conferenziere. Piuttosto sono qui per dirvi che qui esiste un atelier e che in questo atelier si pratica appunto l’Espressione.
Cosa vi succede? Ebbene, delle persone vengono in un atelier, che è un luogo chiuso – spero che abbiate abbastanza tempo per visitarlo dopo; potete passarci. In questo atelier i fogli si fissano sui muri, che sono ricoperti di carta da pacchi con mille piccole macchie di colore. Sono gli sconfinamenti delle
persone che dipingono. Fin qui niente di straordinario, potrebbe somigliare a un qualunque atelier di pittura. Tuttavia, è un po’ particolare il fatto di fissare dei fogli sul muro con le puntine; in generale si usano altri sistemi, ma passiamo oltre. Al centro una Table-Palette, una tavolozza: diciotto colori. Una
tavolozza con tre pennelli per ogni colore. Di fatto nessuno ha il suo pennello, la sua tavolozza; si ritorna ogni volta verso la Table-Palette, si prende un po’ di colore e si va a tracciare. C’è un posto al centro che è luogo di comunicazione; luogo di comunicazione tra le differenti persone dell’atelier, ma poi ognuno torna a tracciare sul proprio foglio e qui, la libertà è assoluta.
Il formato del foglio è di 45 x 64 cm: viene fissato a volte verticalmente, molto spesso nell’altro senso. Per ognuno è possibile aggiungere altri fogli, a partire dal momento in cui traccia sul proprio foglio. Perché a volte si comincia un tracciato e poi si è limitati; così accade per il quadro, la tela di chi dipinge, di chi fa della pittura artistica. Ci sono certi pittori che aggiungono delle tele, ma non è mai molto pratico. Nell’atelier è semplice, si aggiunge qualche puntina e poi, hop! si può ingrandire; in alto, in basso, a sinistra, a destra. Non un foglio, non due, non tre, non quattro, non cinque, non dieci; mille, diecimila. Non ci sono limiti.
Evidentemente, come potete immaginare, non si possono avere diecimila fogli puntinati come questo nell’atelier, non c’è lo spazio. Ma, una seduta dopo l’altra, il dipinto si sposta e continua in un senso o nell’altro, parte verso l’alto, ridiscende in basso. Non ci sono limiti. Certi bambini, e parleremo sempre
di bambini anche quando avranno cinquant’anni e più, certi praticanti in ogni caso, certe persone faranno un solo dipinto in tutta la loro vita. A partire dal momento in cui entrano nell’atelier, cominciano a tracciare e poi questo dipinto continuerà tutta la loro vita, seduta dopo seduta. «Oh là là! Che barba!».
Altri, al contrario, faranno ogni volta un dipinto diverso. Alcuni tracceranno la stessa cosa per dei mesi, cioè ripeteranno eternamente lo stesso vaso, lo stesso vaso di fiori, la stessa montagna o utilizzeranno lo stesso colore. In un atelier di pittura questa verrebbe definita povertà e alla persona che dipinge verrebbe detto: «Ma perché utilizzi sempre questo marrone? Ci sono diciotto colori più i miscugli! ». (Parleremo di miscugli perché c’è un posto, lo vedrete tra poco, dove è possibile mischiare i colori). Allora perché utilizzare sempre questo stesso colore, perché? Ebbene, lasciamo che questa persona utilizzi lo stesso colore perché noi, come praticiens dell’Espressione, non abbiamo bisogno di andare oltre. Conosciamo, Arno l’ha detto in modo abbastanza semplice, la “grammatica” dell’Espressione. La conosciamo quindi
non abbiamo bisogno di preoccuparci. Non abbiamo bisogno di preoccuparci se le persone ripetono eternamente le stesse cose, se usano gli stessi colori. Non ci preoccupa poiché non stiamo facendo un atelier d’arte, ma un atelier di Espressione. Ciò che cambia tutto è proprio questo, il fatto cioè che
nell’atelier non stiamo praticando un’arte, non stiamo facendo un’opera, ma stiamo facendo una «non-opera ». Questa è l’Espressione di Arno Stern.
Egli non ha fatto questa scoperta attraverso l’Oriente, come me; io sono arrivato all’atelier perché c’è una pratica, per così dire… “orientale”. Poiché ho una pratica differente, l’atelier è arrivato, hop ! così… Per Arno c’è una ricerca che egli ha portato avanti per più di quaranta anni. Ora, non saprei, in totale dal
1946 fino ad oggi, i giorni sono molti. Ha condotto la sua ricerca, ha fatto questa scoperta ed è arrivato alla conclusione di una non-opera. Ebbene, non-opera, è il risultato del non-fare. Può sembrare una scorciatoia; no, non è una scorciatoia. Non possono esserci non-opere se non c’è non-fare.
Qui, il praticien, colui o colei che si occupa dell’atelier, ha una conoscenza. Ha una conoscenza di quello che succede; poi predispone lo spazio, permette che l’Espressione sorga. «Ma che diavolo è quest’Espressione? E’ già un quarto d’ora che parla e non lo abbiamo ancora capito». Può darsi che nemmeno alla fine della conferenza lo avrete ancora capito, ve lo dico subito. Può darsi che sarà necessario praticare, ma nessuno è obbligato a farlo, siete assolutamente liberi. Ma perché qualcosa avvenga a partire dal non-fare, perché ci sia non-opera, bisogna che qualcosa sorga dal più profondo dell’essere. Arno Stern, dopo aver fatto dipingere dei bambini per molti anni, ha scoperto i segni dell’Espressione; ed è ciò che gli ha permesso di accorgersi che dietro i tracciati, dietro i disegni, dietro le rappresentazioni che facevano in particolare i bambini — perché c’erano molti bambini che andavano nel suo atelier — c’erano sempre e eternamente gli stessi segni che, d’altra parte, non sono molto numerosi; e che tutti erano abbagliati dai tracciati, dai disegni, ma non vedevano i segni che stavano dietro.
All’inizio, quando disegniamo, abbiamo eventualmente il desiderio di rappresentare qualcosa. Prima di tutto, bisognerebbe ritornare ai bambini piccoli, quelli molto piccoli che fanno gli “scarabocchi”. È così che vengono chiamati i primi tracciati, con una connotazione di leggero disprezzo, no? Allora il bambino piccolo comincia a fare:
«Sì, è carino, è commovente; è il suo primo disegno». I genitori sono emozionati, ma ciò che non riescono a vedere è perché c’è il bisogno di tracciare. Dopo tutto, perché tracciare? Da che ce ne ricordiamo, chi ha mai, e riprendo un esempio di Stern, resistito a tracciare qualcosa su un vetro appannato? Un bel vetro appannato… oh! Si traccia — non noi adulti — ci si fa qualcosa, si lascia una traccia. Dopo… si vorrà canalizzare il bisogno di tracce. Il bambino evolve e comincia a rappresentare qualcosa. Rappresentare non è necessariamente un bisogno, ma forse una conseguenza della società: vede delle cose, vede delle persone che disegnano, vede delle immagini e le rappresenta. Poi, gradualmente, da questo “scarabocchio”, tra virgolette perché c’è del disprezzo e secondo me non si deve disprezzare nulla della produzione di un bambino, si arriva a:
Tutti abbiamo fatto questo, TUTTI i bambini. Questa struttura che è abituale per le persone che appartengono alla nostra civilizzazione, l’Europa ecc… si ritrova in modi differenti nei paesi in cui non c’è questo genere di case; si disegnano altre cose come questa:
Cos’è? Non lo so, forse è il cappello di un mago. Non ha importanza. Quello che conta è il tracciato. Ma questo tracciato viene disprezzato e si esercita il proprio disprezzo dicendo al bambino: «Il tuo camino non è diritto, piccolo mio». Ecco che allora si comincia a raddrizzare quella che, evidentemente, non è una casa. Tutti se ne rendono conto. È la proiezione, è una proiezione del corpo del bambino. Non voglio andare oltre a livello di “grammatica” ma in ogni caso si tende a raddrizzare. Si comincia ad obbligare. Ciò che è importante in questo tracciato non lo si vede. Lo vede, chi è abituato ai tracciati delle persone. Dunque non ne è colpito, poiché è chiaro e, tutto ciò che viene in seguito, non ha importanza. Che siano queste piccole tende:
o piuttosto la porta:
Di solito, quello che viene considerato importante è tutto ciò che si fa intorno: si disegna, si camuffa, si nasconde. In effetti, in un atelier normale o a scuola dev’essere “dritto”.
Allora, a volte, ci sono delle porte così…:
Possiamo anche ammettere, per esempio, che se un bambino piccolo fa questo, perché abita a “Creteil…Soleil”, o a “Emile Zola”, si dica: «Ah! allora disegna la sua casa; ecco è il suo HLM (edifici residenziali popolari, tipo palazzine – N.d.T.)».
Ma allora come è possibile che ritroviamo questi stessi disegni in Africa? «È perché disegna… un leopardo». Va bene, d’accordo. Ma… come mai troviamo questi disegni dove non ci sono leopardi, in regioni dove i leopardi non esistono? Forse perché disegna un armadillo, o una tartaruga, o… Bisogna
assolutamente vederci una rappresentazione e questo deforma i tracciati dei bambini. I tracciati dei bambini però non hanno bisogno che ci si occupi di loro, non hanno bisogno che si dica che cosa rappresentano. Peraltro, se notate, un bambino che traccia, all’inizio, fa vagamente qualcosa; eventualmente ve lo porta: «Guarda mamma, ho fatto un cane. È un cane, un cane!». Ma l’indomani, dopo aver giocato con il cane — perché talvolta utilizza così il suo disegno — ritorna e dice: «Guarda è un maiale; ah, sì! è un maiale». E poi, dopo, è un’altra cosa ancora. Non ha bisogno che gli si confermi quello che rappresenta. Ha un solo bisogno: tracciare. Perché si manifesta questo bisogno di tracciare? Si manifesta perché, a livello delle nostre origini, del nostro organismo, abbiamo una memoria. Arno Stern la definisce “memoria organica”, una specie di registrazione. Abbiamo bisogno di tracciare ed esistono momenti di svolta in cui le tracce, all’improvviso, emergono: per riequilibrarci, abbiamo bisogno di lasciar fluire queste registrazioni. Ecco il vero fondo dell’Espressione: lasciar fluire queste registrazioni. Ma esse non emergeranno così facilmente, soprattutto oggi. In certi periodi, diciamo molto antichi — so che il mio discorso vi sembrerà un po’ sfilacciato, ma tanto peggio — avevamo una rappresentazione di un uomo, e attorno a quest’uomo, questo tracciato:
«Ah! Ecco, l’ho riconosciuto, so chi è. “Lasciate che i piccoli vengano a me…” È Gesù!».
Non è molto ben rappresentato da parte mia, è vero, ma nelle rappresentazioni molto antiche viene rappresentato in un uovo. E se voi notate, i bambini molto piccoli, quando non sono troppo guidati, quando non sono troppo “danneggiati”, quando si è lasciata loro la libertà, rappresentano degli esseri, degli animali all’interno di tasche (tracciati avvolgenti). Allora cominciamo a farci delle domande: «Ah sì, questa tasca è l’aura, è questo, è quello…», direi che per il momento non ci riguarda. Ciò di cui abbiamo bisogno, è di lasciare il bambino, l’adulto esprimere questo tracciato. Esprimere, e appunto arriviamo ad espressione (ex-pressione), cioè «spingere fuori». È questo bisogno che normalizza, nel senso che ci equilibra. Spingere fuori, esprimere e, quando ci saranno questi tracciati, diremo: «Ecco, è chiaramente un tracciato dell’Espressione». In effetti, nelle chiese molto antiche, troviamo gli stessi tracciati, prima che ci fosse un irrigidimento, una codificazione e che tutto fosse riutilizzato dal dogma. Nei bambini troviamo delle tasche avvolgenti, troviamo dei sentieri, ritroviamo differenti temi e figure. Il numero di queste figure è limitato. Avremo la casa — chi ha mai resistito a disegnare una casa? Avremo la barca, una figura raggiante, che può essere un fiore, un sole, questo non ha più importanza. Avremo il sentiero, che si diversifica, e avremo, allo stesso modo del sentiero, le radici di un albero.
Avremo la linea mediana. Perché? Vi siete già domandati come mai i bambini, su dei corpi, diciamo, informi, tracciano sempre i bottoni e dicono: «Ah, sì! Ci sono dei bei bottoni…» Perché tracciano i bottoni? Perché sulla strada tracciano una linea tratteggiata?
Sono forse a tal punto appassionati del codice della strada? Forse che papà ha loro detto, a cinque o sei anni o anche prima: «Traccia la linea intermittente»? Perché non la fanno con un tratto continuo? «È la mezzeria della strada, non la devi superare!». È sempre così la linea assiale; è una cosa curiosa, è strano.
Chi si è posto delle domande a questo proposito? Arno Stern. Egli si è interrogato su queste cose, ha constatato, classificato, ha colto la grammatica che sta dietro e che permette di comprendere questi tracciati. Egli non ha cercato di dare spiegazioni tipo: «Ah, sì! Se il bambino fa questi piccoli segni, è perché un anno fa il suo fratellino ha avuto la varicella, dunque egli sta… bla, bla, bla», non so cos’altro ancora. Si può anche notare che così come ci sono le radici, tutti i bambini – e gli adulti certamente, ma nei bambini è considerevole – fanno il mare. Tutti i bambini fanno il mare. Intanto spesso c’è una barca:
Oh! Perché ha sempre delle vele? È un po’ stupido, ma oggi non ci sono più delle vele, a parte le imbarcazioni come i trimarani. In quelli, certo, ne ho viste, come quella di Olivier di Kersauson: «Guarda, guarda, ma questo non ha niente a che vedere. Cos’è questa barca a vela così? Insomma è ridicolo, è ridicolo! ». È perché c’è un bisogno. È la «barca-casa», o quello che volete. C’è un bisogno e questo bisogno traspare. Come realizzare questo bisogno? Esso trasparirà se si lascerà fare il bambino. Ma se gli si dice: «Sì, ma qui la tua barca è sempre di profilo, falla un po’ di fronte, cambia, metti una prospettiva, comincia a dare una struttura al tuo disegno…», si rovina tutto. Si rovina tutto e dopo non bisogna stupirsi che i bambini non abbiano più “immaginazione”, tra virgolette. Sotto, poiché ha fatto bene il disegno della barca, si mette un voto ecc.
Poi viene all’atelier. Allora comincia a disegnare un pesce, un vago pesce. Un pesce, un altro pesce… poi arriva alla fine del foglio e la persona che è al centro dice: «Vuoi un altro foglio? ». «Sì». Allora si aggiunge un altro foglio e il mare continua. Pesce… e sorge un elemento straordinario:
La piovra, le radici, la casa con il sentiero che si ramifica, che va dappertutto: forse che non appartengono allo stesso ambito? Non è forse la stessa cosa?
Se si comincia a intervenire quando un bambino fa un tracciato, se si comincia a dirgli : «Ah! È carino!» già questo pone un problema. Quando dite: «È carino» vuol dire che potrebbe anche essere brutto e ciò può essere molto grave. Effettivamente talvolta dei genitori, quando il bambino mostra loro qualcosa che somiglia a questo:
«Guarda papà, sei tu!» rispondono: «…Oh, non sono mica tanto bello!».
Il bambino ha disegnato “papà-non-tanto-bello”. Non so se tra di voi ci sono persone un po’ psicologhe, ma… Dunque astenersi, limitarsi per lasciare che gli atti emergano. «Sì, ma dopo il bambino è così fiero!». Appunto, vedete, lo dite voi stessi, «È talmente fiero!». Volete che sia ancora più fiero? Voi volete che sia ancora più fiero, e dopo che sia talmente fiero da essere più forte del suo vicino? Se è questo che volete, continuate!
Salvo che all’atelier le cose non vanno così. All’atelier nessuno guarda i disegni. Si dipinge con gli occhi bendati? No, certo e, se passate nell’atelier — cosa che farete, spero — vedrete che non c’è nemmeno molto spazio. Quindi, evidentemente io vedo il dipinto del mio vicino — poiché in questo luogo non sono praticien ma traccio. Tra l’altro è curioso, mi ricorda qualcosa: in Giappone, in certi bagni pubblici, uomini e donne fanno il bagno insieme. Sono i bagni “naturali”, di acqua di sorgente; gli uomini arrivano coi loro piccoli asciugamani, si lasciano scivolare nell’acqua, le donne fanno la stessa cosa.
Allora, vuol dire che non si vedono? Sì, ma non si guardano. Si vede, ma non si guarda. Questo cambia tutto. All’atelier si vedono i tracciati degli altri; li si vede, ma non li si guarda.
Il responsabile dell’atelier, e il suo ruolo è estremamente importante, si muove, ha da fare, poiché ci sono delle piccole regole nell’atelier, importanti, per non turbare un tracciato.Voi direte, i bambini tracciano subito, fin dall’inizio o, semplicemente, essi tentano di rappresentare? Perché spesso è proprio così. Ci sono molti bambini che arrivano: a volte vogliono fare qualcosa di “estetico” o fanno delle cose così:
Ecco, com’è intelligente…
All’inizio fanno delle cose così. Poco a poco si accorgono che, in fin dei conti, questo li annoia e passano a qualcosa d’altro. Ma nel frattempo, si chiede comunque loro di rispettare certe regole estremamente semplici: il foglio è attaccato con quattro puntine. Quando si dipinge con il pennello e si arriva in un punto in cui c’è una puntina, in quel momento, si dice «Puntina!». La persona che è al centro, che si occupa dell’atelier, si avvicina, toglie la puntina, la sposta in un altro punto del foglio e si può quindi continuare il proprio dipinto fino alla fine, molto semplicemente. Dunque, puntina qui, puntina là e se il foglio s’imbarca: «Posso avere una puntina?» «Sì, certo, nessun problema».
Ci sono persone che fanno fatica con tutte queste piccole regole, ed è vero che da questo punto di vista, non è male l’atelier. Alcuni arrivano fino al bordo del foglio e provano togliere la puntina da soli oppure dicono a voce molto bassa: «…puntina». Poco a poco, questo passerà. Alla fine potranno sentirsi un po’ più liberi.
All’inizio certuni faranno fatica, anche i bambini, abituati a ricevere dei rimproveri, degli sguardi accigliati, dei «dimmi un po’…».
Per questo a volte non osano. «Se domando “puntina” cosa succederà?».
Allora, con «Puntina!», si sposta la puntina. «Goccia!». È vero, a volte, poiché è della tempera, si mette un po’ troppa acqua… E sì! C’è un apprendimento a livello tecnico. Questo apprendimento avviene molto semplicemente e in modo spontaneo. Non c’è bisogno di imparare. No, accade naturalmente. Ma effettivamente si traccia e poi, pfuitt, il colore cola. «Ho fatto una goccia! Goccia!».
È qualcosa che disturba. Il praticien, che è al centro, arriva col suo coltello e leva la goccia. Se resta una traccia mette un po’ di bianco. Ed è molto importante quando si è davanti al proprio tracciato, quando si sta dipingendo. Ancor più lo sarà quando qualcosa sarà veramente emerso. In quel momento non si sopporterà più di essere interrotti. È il vantaggio che ci sia qualcuno al centro. Quando si arriva vicino alla puntina, questi sposta la puntina. Quando c’è una goccia, toglie la goccia. Se si ha un bisogno «Vorrei un foglio per ingrandire», egli mette il foglio. Questo alle volte può richiedere trenta secondi,
perché sta finendo di fare altre cose: «Sì! Arrivo, finisci qualcosa… ecco».
C’è un’attività, un lavoro. Dunque all’atelier c’è un’atmosfera che circola; è un po’ speciale. Ma quando l’Espressione sorge si è… soddisfatti, semplicemente soddisfatti. Quando è il momento dell’Espressione, il momento in cui qualcosa sgorga, zampilla, ciò che sorge in noi è intenso. Abbiamo un bisogno e dobbiamo esprimerlo, spingerlo fuori. Lo tracciamo e poi siamo soddisfatti. Non abbiamo alcun bisogno di mostrare ciò che abbiamo fatto e, inoltre — lo comprenderemo un po’ alla volta — siamo estremamente soddisfatti che i nostri tracciati restino all’atelier. Nessun dipinto, tavola o tracciato esce dall’atelier.
Tutti sono classificati per nome: ciascuno ha la sua cartellina; tutti sono datati, numerati, ma nessuno uscirà né sarà visto da altri. Dopo tutto non è male. È una delle condizioni della nostra libertà.
All’inizio ci si potrebbe dire, è un peccato. Perché non fare un’esposizione di tutti questi bei disegni?
Perché non scegliere il migliore? Perché non il peggiore? Perché non correggere? Perché non migliorare? Il fatto è che non si tratta di arte, non si tratta di qualcosa che va in una di queste direzioni; al contrario, si tratta di lasciare emergere da noi qualcosa che sconfina, che trabocca. In qualche modo, all’atelier, una traccia che scappa all’improvviso in un disegno di un bambino diventa qualcosa di normale e non è più solo un lapsus. Questo cambia molte cose. E per poter essere in questa condizione di spirito siamo costretti ad essere in una condizione di spirito di non-fare. Abbiamo fatto del non-fare — ed è per questo che ho intitolato questa conferenza: «Dipingere in un atelier d’Espressione, una pratica del non-fare» — una specie di ideale: vado verso il non-fare. Ma il non-fare è alla vostra porta, è qui sempre, tutti i giorni. È possibile ed è possibile per ciascuno. Non è obbligatorio adottare una forma di ascetismo, fare delle respirazioni sacre, o meditazioni di ogni tipo, o non so cos’altro… Il non-fare è qui, a portata del vostro quotidiano. Anche all’atelier è possibile. Ma si può trasformare tutto, cambiare ogni cosa. L’atelier può diventare un atelier di una “casa della gioventù”. Ogni dipinto è personale; nessuno tocca un altro dipinto; nessuno ritocca un altro dipinto.
Ci sarebbero talmente tante cose che vorrei dirvi sull’atelier…